M - Il figlio del secolo (Joe Wright, 2024)

Pubblicato il 9 febbraio 2025 alle ore 20:05

“C’è sempre un tempo in cui i popoli smarriti van verso le idee semplici, la sapiente brutalità degli uomini forti. In noi trovano lo sfogo dai loro rancori, l’evasione dal senso mortificante della loro impotenza, la speranza, come per miracolo, di capovolgere il loro insoddisfacente destino. Bastano le parole giuste, parole semplici, dirette, gli sguardi, il tono giusto. E allora ci amate, ci venerate. Mi avete amato follemente. Per vent’anni mi avete adorato, temuto come una divinità. E poi mi avete odiato, follemente odiato perché mi amavate ancora. Mi avete ridicolizzato, scempiato i miei resti perché di quel folle amore avevate paura, anche da morto. Ma, ditemi, a cosa è servito? Guardatevi attorno. Siamo ancora tra voi!”

Questo è il potente incipit che Benito Mussolini pronuncia, rivolgendosi a noi, il suo pubblico, mentre sullo schermo scorrono, attraverso un montaggio frenetico, le immagini d’epoca della vittoria e della sconfitta del duce: i celeberrimi discorsi dal balcone di Palazzo Venezia, gli incontri con Adolf Hitler, le sue pose plastiche e inconfondibili: pochi fotogrammi a riassumere un ventennio, o forse un secolo, di violenza, di morte e di follia, individuale e, soprattutto, collettiva. Dopodiché, la camera si sofferma sul volto devastato e scempiato di Mussolini, stacco, e veniamo proiettati al 23 marzo 1919, data storica di fondazione dei Fasci di combattimento. Stavolta, è un Mussolini trentacinquenne a rivolgersi a noi, a ricordarci immediatamente due elementi che saranno fondamentali per capire lui, un’epoca e, forse, un intero popolo: le sue origini socialiste, che ben presto tradirà in nome del potere, e il suo carattere sanguigno, “bestiale”: “Sono come le bestie, sento il tempo che viene. E questo è il mio tempo”, ci dice, con lo guardo dritto in camera.

La serie copre un periodo abbastanza circoscritto, ovvero l’ascesa al potere del duce fino al celeberrimo discorso in cui Mussolini si assume furbescamente la responsabilità politica e morale dell’omicidio Matteotti, nel 1925. Sono tanti gli elementi che concorrono a rendere M. Il figlio del secolo uno dei migliori prodotti seriali degli ultimi anni e, forse, di sempre: in primo luogo, il comparto tecnico è di altissimo livello. La regia di Joe Wright è agile, elegante, geometrica, e il montaggio di Valerio Bonelli è dinamico ed estremamente curato. Straordinarie anche le musiche, con sonorità elettroniche e distorte, di Tom Rowlands dei Chemical Brothers, che trasformano l’opera in uno spettacolo pop, post-moderno e accattivante anche per un pubblico giovane. Oltre a ciò, per quanto la serie cerchi di svecchiare i classici stilemi delle narrazioni a sfondo storico, riesce miracolosamente a non essere mai superficiale: ogni dialogo, monologo, riflessione intima sono accurati, adeguati e capaci di delineare e caratterizzare perfettamente Mussolini e tutti i personaggi che gli gravitano attorno, grazie all’ottima sceneggiatura di Bises e Serino, a cui ha partecipato anche Scurati, autore dell’omonimo romanzo vincitore del Premio Strega nel 2019, a cui la serie si ispira. La serie, tuttavia, differisce dal romanzo in un paio di aspetti essenziali, che, a mio avviso, sono i maggiori punti di forza dell’opera: la prospettiva con cui viene raccontata, ovvero quella di Mussolini, che si rivolge a noi spettatori in prima persona, rompendo costantemente la quarta parete, e l’umorismo beffardo, un black humor molto british (non dimentichiamo che House of Cards nasce in Inghilterra) che rende la sua figura ancora più grottesca e, forse, terrificante nella sua doppiezza.

Come il Francis Underwood di House of cards, il Mussolini di M. mente a tutti per i propri scopi, manipola e adultera la realtà e solo a noi spettatori, con un atteggiamento da gradasso che ne rivela tutta la meschinità e la piccolezza, confessa la sua strategia, i suoi pensieri e intenzioni, come fossimo suoi complici. Cosa che, in fondo, siamo stati, e la serie ce lo ricorda continuamente. Difatti, Il figlio del secolo ci ricorda insistentemente le nostre responsabilità, o, almeno le responsabilità che agenti esterni (alto-borghesi, capitalisti ecc.) hanno avuto nell’ascesa di un uomo piccolo e meschino, la cui pericolosità è stata costantemente sottovalutata. Il popolo, in fondo, ha creato Mussolini e Mussolini ne personifica gli aspetti più temuti, nascosti e viscerali: la violenza, cifra essenziale del fascismo in quanto espressione di un vitalismo superomistico distorto, l’ambiguità e l’opportunismo. Mussolini, come è lui stesso a ricordare (“Sono una bestia coerente. Ho tradito tutti, anche me stesso”), è un individuo disposto a rinnegare ogni ideale (a partire dalla fede socialista) per ottenere il potere e per esercitarlo con il sopruso. Il fascismo, in fin dei conti, “è tutto e il contrario di tutto”. L’atteggiamento animalesco, ignorante e “selvaggio” che lo caratterizza emerge anche nella dimensione privata, nei suoi rapporti con le donne, dalla remissiva moglie Rachele (Benedetta Cimatti) alla ricca e colta Margherita Sarfatti (Barbara Chichiarelli), amante del duce e ideologa e finanziatrice del primo fascismo. Ma il carattere del nostro Mussolini si definisce anche e soprattutto in rapporto alle sue “nemesi”, con cui Benito deve confrontarsi: da un lato, D’Annunzio (Paolo Pierobon), il poeta, l’intellettuale, l’uomo dell’Ottocento che si contrappone al figlio del Novecento, ma che si pone sempre su un piano di superiorità, anche sessuale, come osserva lo stesso Mussolini in una delle sequenze più divertenti e meglio riuscite della serie. Dall’altro lato, c’è Giacomo Matteotti (Gaetano Bruno), il “socialista impellicciato” che ha scelto di stare dalla parte dei più deboli, l’esatto contrario di Mussolini, nato nella povertà e che disprezza la miseria.

Ovviamente, al di là della straordinaria cura tecnica ed estetica, la riuscita della serie dipende anche dall’eccezionale cast, su cui svetta il Mussolini di Luca Marinelli, il migliore attore italiano della sua generazione, che ci regala una prova indimenticabile. Perfetto nell’incarnare l’istrionismo del duce in quanto figura pubblica come negli aspetti più intimi, la sua tenace, vitalistica e “futuristica” fame di potere e la dimensione di solitudine che lo attanaglia una volta che quel potere lo ottiene e lo deve mantenere. In questo senso, la puntata conclusiva, in cui Benito, in un’atmosfera gotica e quasi shakesperiana, viene perseguitato da spiriti femminili castranti di felliniana memoria, raggiunge livelli di perfezione formale e stilistica che raramente si erano visti sul piccolo schermo. Come nel caso dell’Andreotti di Servillo, non ci interessa se alcuni monologhi li abbia pronunciati davvero, o se i pensieri che condivide con noi siano veramente i suoi: Il figlio del secolo, esattamente come Il Divo o tante altre opere a sfondo storico, se non tutte, non ha pretese documentaristiche, ma artistiche, ed è proprio attraverso l’arte, la rielaborazione in chiave finzionale di una figura così terribile, tragica e farsesca allo stesso tempo, che un’opera riesce a divenire affresco e specchio dei tempi.

In conclusione, M. Il figlio del secolo è un’opera straordinaria, raffinata, capace di raccontare un’epoca (anche la nostra), attraverso lo sguardo spietato e beffardo di un uomo che ha definito il corso della storia e che, come recita perfettamente il titolo, è il “figlio del secolo”, il prodotto del suo tempo, ovvero un tempo di crisi, di smarrimento, di oscurità e profonda ignoranza. M. è, insomma, un uomo mediocre, furbo più che intelligente, un imbonitore populista che, tuttavia, raccoglie su di sé tutti i caratteri distintivi di un secolo e, in parte, di un popolo, il nostro. Capolavoro.

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